Le mura palatine

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di Nicoletta Travaglini

Monte Pallano

Di fronte all’imponente profilo del massiccio montuoso della Majella, in Abruzzo e più precisamente, nella provincia di Chieti, si staglia il Monte Pallano; un colle sulla cui sommità svetta il simbolo della società moderna e tecnicizzata:  il ripetitore tv e antenne per la telefonia mobile; poche balze più in basso, però, vi sono i ruderi  di un’ antica “gosthtown”, delimitata da una possente cinta muraria, composta da blocchi di pietra calcarea sovrapposti a secco.
Il Monte Pallano è alto all’incirca 1020 metri ed è avvolto da una fitta vegetazione  che va dalle querce fino ai lecci, passando per  i cerri e faggi. Il suo territorio è diviso tra il comune di Archi, Atessa, Tornareccio e Bomba. La fauna che popola questo primitivo angolo d’Abruzzo è composto da: volpi, tassi, lepri, qualche cinghiale, ovviamente i serpenti, ramarri e uccelli rapaci notturni e diurni.
Questo luogo funge da spartiacque tra la valle del Sangro e quella dell’Osento. Dalla sommità di questo monte lo sguardo si perde sulle cime dell’Appennino Marchigiano fino a immergersi nelle coste della ex Jugoslavia, sostando sul Faro di Puntapenna a Vasto, e sull’antica Abbazia di Santo Stefano ad Riva Maris, potente monastero distrutto dai mori.
L’aspetto peculiare di Monte Pallano è costituito da mura ciclopiche che si ergono per circa 163 metri in prossimità della vetta, raggiungono l’altezza e lo spessore di circa  5 metri; essi risultano leggermente inclinati rispetto al terreno circostante e recingono solo parte del versante di Tornareccio, poiché il resto è difeso dall’asperità del paesaggio come: canaloni, vegetazione intricata, angusti viottoli, rocce etc.
  In passato, vi si accedeva tramite quattro porte molto strette, di cui solo tre sono, al momento, visibili, di cui, una, ancora in fase di recupero, poiché nel 1971, fu distrutta a causa di un allargamento di una strada rurale. La più grande e la meglio conservata viene chiamata “Porta del Piano”, l’altro ingresso più basso è chiamato “Porta del Monte”; queste anguste aperture,  che hanno la trave principale costituita da un monolite unico, servivano per il passaggio di una persona per volta o di un unico cavaliere, così in caso di attacco nemico,  essa poteva essere facilmente sorvegliato.
Il suo toponimo potrebbe derivare dal nome della dea Pale, protettrice dei pastori a cui si tributavano offerte per propiziare fecondità e salute delle greggi.
La dea Pale, che spesso è  rappresentata anche come un dio, ha molte caratteristiche simili a Eracle – Ercole, questo fatto è suffragato anche da ritrovamenti fatti nella zona di Pallano.  Eracle era l’eroe nazionale greco, ma il suo mito si diffuse anche in Oriente, in Europa e ovviamente preso gli Italici. Egli, come le dee Pale, Bona, Maia e in generale le divinità agresti, erano i numi tutelari dell’agricoltura e di tutto ciò che era legato ad esso, inoltre si invocava questo semidio anche per la stipula di contratti, in quanto egli era anche il protettore della “parola data” e “della buona fede”. Veniva, spesso,  rappresentato con la clava e la pelle leonina addosso, con arco e faretra, e presso gli Italici indossava la corazza; aveva quasi sempre la barba ed era nudo con una possente muscolatura.  Egli nutriva dell’astio nei confronti della dea Maia – Bona, la quale si rifiutò di farlo bere alla sua fonte durante le celebrazioni dei riti annuali ad ella dedicati, ai quali erano interdetti gli uomini. Ercole – Eracle stanco ed affaticato per l’ennesima fatica patita, non si era reso conto della situazione e così da quell’episodio disdicevole che nacque il divieto alle donne di partecipare ai riti in onore dell’eroe.
Il sincretismo cristiano assimilò questo eroe mitologico con Sant’Antonio Abate o del deserto, del fuoco o del porcello con connotazioni prettamente agricole; infatti, ancora oggi, è in uso, presso i contadini invocare il Santo per propiziare la fecondità del bestiame. Molte sono le analogie tra questi due personaggi, per esempio come il suo archetipo, Antonio ha la barba, combatte con le entità infernali ed è nato in oriente. Inoltre nella zona pedemontana di Pallano, all’incrocio delle grandi arterie tratturali del passato, e sull’attuale strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro,  sorge il Ponte di Sant’Antonio dalla vicina chiesa a lui dedicata.
Tuttavia non si può escludere che il toponimo Pallano potrebbe derivare  dal nome della dea della sapienza Pallade ma non vi sono molto elementi a supporto di tale tesi.
Alcune fonti ritengono, invece, che il nome provenga dal termine  osco  “Pala” che significa rotondità o altura.
I megaliti, comunque, non erano costruzioni obsolete, poiché se ne contano più di duecento solo nella zona dell’alto e basso Sangro; questo complesso di recinzioni, si ritiene, che facessero parte di una più ampia rete di elementi difensivi disseminati in punti strategici, che si tenevano in contatto attraverso segnali ottici notturni e diurni.
Il  Monte Pallano, doveva, presumibilmente, essere, per la sua particolare conformazione geomorfologia, un punto strategicamente fondamentale e un sicuro baluardo contro la colonizzazione ellenica, in quanto rappresentava l’ultima montagna prima del mare.
Questa cinta muraria sono le vestigia di antiche civiltà preistoriche la cui origine si perde nella notte dei tempi, giacché, essa, data intorno al IV – VI secolo a. C., sembra essere stata edificata su elementi preesistenti.
La presenza  umana, in questi luoghi,  si fa  risalire a circa 20000 anni fa e anche se  rara,  essa era basata su gruppi più o meno organizzati.
Nel millennio che definiamo come Età del Ferro, o meglio la fine dell’Età del Bronzo e  l’inizio dell’Età del Ferro, che viene circoscritta dal 1020 fino al III secolo a.C., la penisola italiana era costituita da un mosaico di popoli con usi e costumi diversi: l’area settentrionale e meridionale era influenzata dalla cultura ellenico-orientale, il centro, invece, era organizzato in confederazioni su modello centroeuropeo.
Una differenza fondamentale tra queste due aree di influenza era il modo di seppellire i morti; quelle popolazioni  affine alla  cultura greco-orientale, bruciavano il loro defunti e ne conservavano i resti in urne bronzee, invece gli altri li tumulavano in fosse che venivano ricoperte da tumuli di terra.
Nel centro Italia, cioè nella Sabina, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata vi erano stanziati i Sabini, Peligni, Marruccini, Marsi Aequi, Vestini, Pretuzi, Frentani, Pentrini, Carracini, Sabelli, Sanniti e Umbri che venivano genericamente definiti, dall’etimo osco, “Safin” . I Frentani, invece, occupavano la fascia costiera del Molise e la parte centrale litorale dell’attuale territorio chietino. Una popolazione affine ad essi occupava la destra del fiume Sangro ed era chiamata Lucani o Lucanati e risultavano culturalmente analoghi agli altri popoli del centro peninsulare definiti, poi, dai romani come Italici.
Questi popoli erano il risultato dell’unione tra pacifici agricoltori autoctoni e pastori guerrieri cercatori di metalli provenienti dalla zona egeo – anatolica, apportatori di tecniche superiori come la transumanza, praticamente sconosciuta presso i neolitici.
Nel I millennio a. C. con l’affermarsi della cultura agreste tipica dei Piceni, la pastorizia fu relegata solo alle zone montane interne. In seguito con l’avvento dei bellicosi Sabelli si diede un nuovo impulso alla pastorizia, la quale per varie ragioni si praticò solo verticalmente, cioè dai monti alle valli circostanti; per favorire tale tecnica essi edificarono i Vici, villaggi agro pastorali, situati in pianura erano difesi dagli Oppida, borghi costruiti su alture e protette da possenti mura, simili a quelli del Monte Pallano.
Il primo insediamento di cui abbiamo traccia in questa zona di Pallano, risalenti a 20000 anni fa circa,  è quello adiacente all’incavo naturale chiamato Lago Nero, che oggi risulta completamente asciutto, che si ubicava nei pressi della cima del monte. Questo lago, che si riempiva solo in determinate condizioni climatiche, era considerato dall’uomo di Pallano, come una divinità alla quale erano tributati culti magico-misterici correlate, alla presenza o meno delle sue acque.
In questo contesto mistico legato all’acqua, che i Lucanati probabilmente, celebravano anche i riti della Primavera Sacra o Ver Sacrum, durante la quale un capo, in questo caso il Nerf, principe guerriero con poteri assoluti, compreso quello religioso, consacrava, forse al Lago Nero, tutti gli esseri viventi che sarebbero nati nella primavera successiva, i quali una volta adulti, venivano allontanati dal consorzio civile perché appartenete alla deità e con il compito di colonizzare nuove terre lontane. In realtà molto di coloro che venivano offerti come ex voto risultavano poco gradite alla  comunità; questi si riunivano, spesso, in vere e proprie milizie paramilitari fuorilegge che terrorizzavano la zona e non solo.
Questo culto era connesso anche alla dea Maja o Maia, la Grande Madre, chiamata anche Vergiliae per il suo stretto rapporto con la primavera di cui ne era, in un certo senso, la personificazione, poiché ad esso era dedicato il mese di maggio, da cui prende anche il nome.
Essa, secondo alcuni miti, era la più bella delle sette Pleiadi di cui si innamorò Zeus, fu anche la moglie di Vulcano e la madre di Ermes. Sul Monte Pallano, essa cercò le erbe per curare suo figlio il quale morì di lì a poco. Maia era una gigantessa facente parte delle mitiche amazzoni e secondo vox populi, i Megaliti Palatini sono stati costruiti da uomini mastodontici, i quali risiedevano all’interno delle mura e andavano a lavorare in Puglia. Essi erano, secondo alcuni miti medioevali abruzzesi, i Paladini o Palladini  di Carlo Magno che la fantasia popolare ha associato ad alcuni scheletri enormi ritrovati nella zona.
Questa cinta muraria non aveva comunque, solo valenza difensiva, ma era anche un luogo di culto dedicato, presumibilmente, alla Grande Madre, il quale posto su un monte poteva fungere, forse, da osservatorio astronomico orientato verso le stelle chiamate Pleiadi le quali, in inverno lasciano il posto a Orione. Ovviamente siamo nel campo delle supposizioni, ma bisogna ricordare che gli antichi costruivano i loro luoghi di culto su punti particolarmente vicino o visibili ai loro dei.
L’insediamento di Monte Pallano, come si è detto precedentemente era strategicamente ottimo, per questo esso resistette a lungo alla colonizzazione forzata e violenta dei romani, che con tre Guerre Sociali,  assoggettarono  gli Italici.
Questa romanizzazione brutale e inevitabile portò anche all’urbanizzazione di quelle comunità tribali sparse in tutta la valle del Sangro;  le quali si aggregarono in vere e proprie città, come quella che nacque nella zona di Fonte Benedetti quasi alle falde di Monte Pallano.
Questa città, di cui ignoriamo il nome,  che era forse la Palacinum impressa in alcune monete ritrovate sul posto,  doveva essere molto ricca ed operosa dato che batteva moneta e si trovava in una posizione particolarmente favorevole al controllo dei traffici lungo il braccio  tratturale secondario Centurelle-Montesecco, rispetto al più importante tratturo Aquila – Foggia, oggi in parte inglobata nella strada a scorrimento veloce “Fondo Valle Sangro”.
Nonostante queste buone premesse questa comunità non divenne mai “Municipio Romano” e così gradatamente ma inesorabilmente la presenza antropica dei luoghi divenne sempre più rara e limitata solo ai Tholos, ripari in pietra usata dai pastori e greggi durante la transumanza.
Durante il Medioevo, molte furono le abbazie e luoghi di culto che si concentrarono a ridosso della zona pedemontana del monte in questione. Per una curiosa coincidenza, forse voluta dai suoi costruttori, lungo la strada che congiunge il mare Adriatico al Monte Pallano vi sono ben tre chiese dedicate a Santo Stefano: la prima Santo Stefano erga mare, nel territorio di Vasto, la seconda Santo Stefano rivum maris a Casalbordino, la terza Santo Stefano in Lucania a Tornareccio. A questa enigmatica casualità si aggiunge anche un destino comune che unì la storia di questi tre luoghi.
E’ notorio che questo protomartire morì lapidato per il suo eccessivo zelo nella diffusione del “Verbo” cristiano. Il suo culto dilagò prepotentemente, dall’oriente fino ad arrivare anche in Abruzzo, poiché esso si intrecciò indissolubilmente con l’agiografia di Santo Stefano in Lucania, parroco della zona Frentana, attuale Lanciano e dintorni, che fu ammazzato barbaramente insieme ai suoi figli dai mori di  Pallonio, despota saraceno che viveva nel castello di Monte Pallano, di cui oggi non si è trovata nessuna traccia se non nei toponimi. I resti del Santo e dei suoi figli furono trovati diversi secoli dopo grazie a un sogno premonitore e in quel luogo fu edificata la chiesa che porta il suo nome. In un’altra versione si dice che Pallonio, da qui, forse, il nome Pallano, avesse imprigionato i cristiani all’interno dei megaliti affinché abiurassero il loro credo, e quelli che non lo fecero furono trucidati.
Queste leggende nacquero in seguito alle scorrerie dei mori che terrorizzavano la costa adriatica e intorno alla prima metà dell’anno Mille, questa chiesa come le altre tre  dedicate al protomartire furono profanate, saccheggiate e distrutte dai saraceni, come in una sorta di invisibile e comune destino che associò questi luoghi di culto.
Santo Stefano in Lucania risorse molto lentamente e faticosamente, Santo Stefano ad rivum maris, invece ebbe un più rapida ripresa ma fu profanato per ben tre volte e  quando nel 1566 Pialy Pascià, mise a ferro e fuoco tutta la riviera adriatica, da Pescara a Termoli, distrusse definitivamente questo luogo sacro, nato su edifici romani preesistenti Egli, dopo aver preso prigionieri i monaci, li sevizio e impiccò sui ruderi della chiesa;  così si compì il tragico destino  della potente abbazia di Santo Stefano ad rivum maris.
Sempre durante l’Evo medio si svilupparono molti miti intorno a questa costruzione atipica, che venne chiamata anche con l’appellativo di “ Mura del Diavolo” , perché in alcune leggende si sosteneva che nelle viscere del monte vi fossero seppelliti ingenti tesori, tutti custoditi da demoni, imprigionati in quei luoghi da malefici; questa credenza popolare ricorda quella degli indiani d’America che costruivano le loro “ Ruote della Medicina”, una sorta di cerchi magici che si dipanavano a raggiera lungo i pendii delle alture, al cui interno vi erano rinchiusi entità malvagie. Il tesoro più cospicuo è composto da una gallina tutta d’oro e dai suoi pulcini, che razzolano nei vari cunicoli di Pallano; il sortilegio che lega i preziosi  al luogo potrà  essere spezzato solo da una certa “Caterina” di Vasto la quale non è nata e non è in procinto di nascere.
In un’altra leggenda si sostiene che queste caverne o cavità naturali terminino in luogo particolare proprio vicino alla chiesa, o meglio di quello che resta, di Santa Maria dei Calderai. Leggende a parte durante alcuni lavori di costruzione  delle rete viaria, alcuni operai trovarono effettivamente dei cunicoli che nessuno, però, ebbe il coraggio di varcarne la soglia.
I megaliti di Monte Pallano, ancora oggi, rappresentano un’affascinate e suggestivo mistero che giunge da un arcano passato di cui ne sono testimonianza, questi silenziosi giganti di pietra.