La spiritualità del curato d’Ars

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La vita di Giovanni Maria Vianney, meglio noto  come il curato d’Ars, proclamato santo da Pio XI nel 1925 e dichiarato protettore dei parroci

di Fabio Mancini

Chissà quanti si sono chiesti cosa distingue la vita di un uomo, da quella di un santo. La risposte potrebbero essere le più diversificate, ma spesso si immagina la vita di un santo come quella di un super eroe, dotato di super poteri. Eppure con tutta la nostra migliore fantasia, la santità è cosa assai diversa rispetto all’eroismo creato e celebrato dagli uomini. Se poi, parliamo di don Giovanni Maria Vianney, per tutti il curato d’Ars, ci accorgiamo che egli è stato più un uomo con molti limiti, piuttosto che un eroe senza colpa e senza macchia. Stando così le cose, sembrerebbe che esista una santità attribuita anche alle persone poco brillanti.
Ma perché proclamare santo il curato d’Ars e dichiararlo patrono di tutti i parroci del mondo, se questi era un sacerdote con scarse risorse intellettive, possedeva pochissima memoria, ignorava la grammatica latina e le sue  catechesi erano copiate dalla predicabilia? Quali qualità aveva il curato d’Ars perché la Chiesa lo proclamasse santo? Cerchiamo di capire le motivazioni. Giovanni Maria Vianney a 19 anni inizia il cammino di formazione per diventare prete, opponendosi per due anni alla volontà del padre che lo reclamava nei campi, come sostegno alla famiglia.
Dopo ben 10 anni e con molti stenti, riesce ad ottenere l’ordinazione sacerdotale. Da questi elementi comprendiamo la tenacia, la determinazione impiegata dal curato nel voler perseguire una volontà incompatibile con le sue capacità. Ma un’altra domanda ci affiora nella mente: che cosa spingeva la folla ad arrivare fino ad Ars per ascoltare le prediche di un parroco poco acculturato? Le cronache riferiscono che la gente andava volentieri ad ascoltare le omelie del curato perché erano credibili, convincenti, passionali.
Il benedettino don Jean-Baptiste Chautard, nella sua opera fondamentale: “L’anima di ogni apostolato” riferisce un  episodio significativo. Un avvocato anticlericale si reca ad Ars certo di poter ridere a spese di “quell’ignorante del parroco”. Ma torna a casa convertito. Agli amici che gli chiedono: Ma dunque che cos’hai visto ad Ars? L’avvocato risponde: “Ho visto Dio in un uomo”. Considerando che il curato non possedeva una voce alta e che all’epoca ancora non esistevano i microfoni, quello che gli astanti riuscivano a malapena ad udire era qualche frase dell’intero sermone, per il resto potevano solo vederlo. E quello che la gente vedeva era un sacerdote con un grande carisma, abituato a sottoporre il corpo ad ogni sorta di penitenza: dal digiuno (due patate al giorno e se qualcuna era ammuffita, per il curato, era ancora buona da mangiare) al giaciglio (composto da tralci di vite ricoperti da una coperta) fino al flagello del cilicio.
In fondo la formazione cristiana di don Vianney risentiva moltissimo del giansenismo, secondo la cui dottrina la salvezza era predestinata e pienamente realizzata nella fede e nelle opere dell’uomo, perseguendo una morale austera e rigorosa. Ma il curato d’Ars oltre ad essere rigoroso, era un uomo innamorato di Dio. Molte delle sue preghiere e omelie erano impregnate di amore per il Signore. Ecco qualche stralcio: “Non tutti noi possiamo fare grandi elemosine ai poveri, farci religiosi, ritirarci in una certosa, nei deserti, ma tutti possono amare il buon Dio dal fondo del cuore. Amare Dio non consiste soltanto nel dirgli con la bocca: mio Dio, ti amo. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta la  mente, con tutte le forze, è preferirlo a tutto, è essere pronto a perdere i beni, l’onore, la vita stessa piuttosto che offenderlo. Amare Dio è amare niente al di sopra di Lui, niente che sia incompatibile con Lui, niente che condivida con Lui il nostro cuore” e ancora: “Ti amo, mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarti fino all’ultimo respiro della mia vita”. Ma è nei riguardi della, o delle croci che il curato d’Ars esprime la massima profondità dei suoi convincimenti. Egli suddivide due modi di soffrire: “soffrire amando e soffrire senza amare. I santi soffrivano tutti con pazienza, gioia e perseveranza, perché amavano. Noi soffriamo con rabbia, dispetto e noia, perché non amiamo. Se amassimo Dio, saremmo felici di poter soffrire per amore di Colui che ha accettato di soffrire per noi” e poi aggiunge: “Colui che va incontro alla croce, cammina in senso inverso alle croci: egli le incontra forse, ma è contento di incontrarle: le ama, le porta con coraggio. Lo uniscono a Nostro Signore. Lo purificano. Lo distaccano da questo mondo. Tolgono gli ostacoli dal suo cuore e lo aiutano ad attraversare la vita come un ponte aiuta a passare l’acqua”. E di croci don Giovanni Maria  ne ha portate: contestato e calunniato dai parrocchiani contrari al suo stile austero, deriso dagli altri sacerdoti e denunciato al vescovo per stranezze, poi il dispiacere del passaggio di proprietà della Casa della Provvidenza (casa da lui fondata che dava aiuto alle giovani ragazze senza istruzione e in condizioni disagiate) all’ordine delle Figlie di san Giuseppe, il forte senso di incapacità e di non idoneità al ministero pastorale, in forza del quale più volte tentò di fuggire da Ars per ritirarsi in solitudine ed espiare i suoi peccati, salvo per poi ritornare ad Ars ogni volta, infine i tormenti dei rumori strani, come i colpi di martello e gli assalti alla porta, oppure le voci rauche, disturbi che il curato d’Ars imputò al Demonio. Ma il meglio di sé, don Giovanni Maria lo offre nell’esercizio della confessione, egli segue le indicazioni di sant’Alfonso Maria d è Liguori, il quale raccomandava ai confessori di non avere fretta, di essere pazienti, di considerare ogni penitente come se fosse l’unica persona da ascoltare quel giorno e di aiutarlo a vincere i suoi peccati uno per uno. Così il curato d’Ars inizia la propria sfida contro tutti i peccati, insiste sulla pratica delle virtù, consiglia il buon comportamento, e spesso nega le assoluzioni, specie se dall’altra parte non percepisce la seria volontà di correggersi. E a coloro che gli rispondevano che sarebbero andati in un’altra chiesa dove non avrebbero avuto difficoltà a farsi assolvere, egli risponde: “Se altri preti vi vogliono aiutare ad andare all’Inferno, che se ne prendano la responsabilità”. Ma il curato ha anche un dono: sa scrutare le coscienze dei penitenti, sa leggere i peccati e in qualche caso corregge i dettagli di alcune confessioni non esposte con la dovuta precisione o in pienezza di verità. Attraverso la confessione il curato ristabilisce il rapporto di amicizia con Dio e a coloro che pensavano: “Ne ho combinate troppe, il buon Dio non può perdonarmi” don Giovanni Maria assicura che nessuno è stato dannato per aver fatto troppo del male, perché la misericordia del “bon Dieu” è infinita. Ciò che stupisce del curato d’Ars è atteggiamento del cuore, attraverso il quale egli supera il rigorismo nel quale era cresciuto e che circondava il suo ambiente. La santità di don Giovanni Maria Vianney trova giustificazione nella sua umiltà e semplicità e nel ministero perseverante e costantemente fedele al suo “bon Dieu”.