Il segreto del Graal e l’eresia del tempio

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di Sabina Marineo

Mircea Eliade

Il ricercatore temerario che scelga d’avventurarsi in un’indagine approfondita sull’enigma del Graal, misteriosa reliquia del Medioevo, farebbe bene a tener sempre presenti le parole dello studioso Mircea Eliade: “Nella lingua parlata moderna il termine “mito” sta a definire tutto ciò che si contrappone alla “verità”; per le società antiche, invece, il mito era l’unica rivelazione valida della verità.”
Chi non consideri con la dovuta attenzione questo pensiero, non dovrebbe occuparsi del Graal, perché ha già perso in partenza la partita. La porta sull’arcano non si aprirà mai per lui. Resterà chiusa, immobile sui pesanti stipiti millenari, decisa a proteggere da sguardi indiscreti e scettici il tesoro dei miti del passato. E chi è pronto a liquidare le leggende come divertenti favole prive di un significato nascosto, se ne andrà deluso, a mani vuote.
I miti del passato non sono favole. Sono rivelazioni di accadimenti reali, occultate oltre i simboli, le trame avventurose, i personaggi circondati da un’aura divina. Nella fucina operosa del Medioevo, i fabbri del destino plasmarono due leggende ugualmente fascinose e inquietanti, nonché strettamente legate tra loro: quella del Graal e quella dell’eresia che covava in seno all’Ordine del Tempio.
Non a caso. Tant’è vero che il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach non esitò a unire Tempio e Graal indissolubilmente, nella sua epopea più famosa, “Parzival”, e nell’altra meno nota, “Titurel”. Da allora sono state scritte migliaia di libri sull’affare dell’Ordine del Tempio, e lo stesso si può dire del mito del Graal. Entrambi i soggetti esercitano una grande attrazione sull’immaginario collettivo. Entrambi hanno a che fare con un possibile tesoro nascosto, una confraternita d’iniziati al segreto, una ritualistica di carattere esoterico, una religiosità ambigua e poco ortodossa.
È bene evidenziare subito che non è il “Santo Graal”, quello di cui sto parlando. Il “Santo Graal” è esistito solamente in un filone cristiano e più tardo della letteratura medievale. Non aveva nulla a che fare con il mito originario. Era parte di un ciclo poetico a sé, sviluppatosi nello scriptorium dei Cluniacensi. I monaci letterati miravano a trasformare il Graal, ad adattarlo alla religiosità della Chiesa Cattolica Romana, a emendarlo di qualsiasi pericoloso elemento eretico. Operazione che, malgrado i diversi tentativi più o meno apprezzabili dal punto di vista letterario, non ebbe però l’esito sperato. La Chiesa, infatti, volle ignorare il messaggio cluniacense e rifiutò sino all’ultimo di prendere coscienza del mito. Non tenne in considerazione il Graal nemmeno dopo che gli abili monaci avevano sagacemente accostato al nome del misterioso oggetto il cristianissimo aggettivo di “santo”.
E allora, se originariamente il Graal non era per nulla santo in senso cristiano e se non aveva niente a che fare con il sangue di Gesù Cristo, che cos’era?
Si parla per la prima volta di “Graal” nello scritto del poeta francese Chrétiens de Troyes, vale a dire nell’opera di un uomo che si muoveva a suo agio nella regione francese di Champagne, alla corte di famiglie nobili imparentate con i padri fondatori dell’Ordine del Tempio. Proprio a Troyes, nel 1128, ebbe luogo quel concilio che riconobbe ufficialmente l’Ordine.
Nell’epos di Chrétiens, “Le conte du Graal”, non appare nessun collegamento evidente, di nessun genere, con la religione cattolica, né con il cristianesimo. Semmai, leggendo l’opera, si percepisce l’eco lontana di antichi miti celtici. È un vero peccato che “Le conte du Graal” sia rimasto incompiuto. Forse la fine mancante ci avrebbe dato la possibilità di carpirne il messaggio nascosto.
Invece Chrétiens ci lascia con il fiato sospeso, affascinati, stupiti e interdetti, senza nemmeno darci la soddisfazione di poter distinguere chiaramente il Graal. Si tratta di un oggetto d’oro tempestato di pietre preziose – racconta Chrétiens – che risplende di una luce sovrannaturale. Questo è tutto. Ma è forse un bacile? Una coppa? Uno scrigno? Oppure è qualcosa di completamente diverso? E ancora: come sarebbe finita l’avventura meravigliosa dell’eroe Perceval?
Il finale in sospeso di Chrétiens rappresentava agli occhi dei monaci letterati l’occasione migliore per trasformare quella storia intrigante dall’olezzo sulfureo, per dirigerla abilmente in una nuova direzione, ortodossa. Lo fecero cristianizzando il tutto, mettendo a fuoco l’oggetto dai contorni sfumati di Chrétiens sino a ricavarne una coppa, il contenitore del sangue di Gesù Cristo. Ne risultò il “Santo Graal” o “Sang Real”, quello custodito da Giuseppe d’Arimatea, la reliquia più preziosa della Cristianità.
Nonostante ciò, come dicevo più sopra, la Chiesa si rifiutò categoricamente di integrare il Graal nella mitologia cristiana. Come si può spiegare questa contraddizione? Non vi è che una risposta: gli ecclesiastici sapevano che il Graal era il potente simbolo di una tradizione eretica ancora viva e operante, dal carattere non solo diametralmente opposto a quello cristiano, ma anche estremamente pericoloso. Per esorcizzarne il messaggio blasfemo, non bastava mettergli accanto la parola “santo”. Era necessario ignorarlo del tutto.
All’inizio del XIV secolo, allorché i cattolicissimi re d’Aragona si vantarono di possedere il calice sacro dell’Ultima cena, non osarono paragonarlo al Graal, malgrado la grande popolarità di cui ormai godeva la leggenda. Lo storico Richard Barber osserva: “Se i custodi del calice dell’Ultima cena esitavano a identificare il loro tesoro con il Graal, era perché essi si attenevano alla posizione della Chiesa, la quale ignorava volutamente e completamente i racconti del Graal”

Wolfram von Eschenbach

Il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach sapeva bene come stavano le cose quando riprese il tema di Chrétiens, una trentina d’anni dopo, e scrisse il suo “Parzival”. Per Wolfram il Graal non aveva nulla a che fare con il credo cattolico. Era un cimelio potente e magico, custodito dai Templari. Nel castello di Munsalvaesche, in Catalogna – racconta Wolfram – cavalieri dai bianchi mantelli detti “Templeisen” tenevano in custodia la reliquia gnostica. Solamente una nobile vergine, Repanse de Schoye, godeva del privilegio di poter prendere il Graal tra le mani. Nemmeno il padre di Repanse, il re malato Anfortas, era autorizzato a toccare la reliquia. Anfortas, in conformità con le leggi dinastiche, si limitava a fregiarsi del titolo di “Re del Graal”.
Ma Wolfram non si accontenta di dare voce al mito, si dimostra radicale: intende mettere subito tutte le carte in tavola, fornendo ai suoi lettori – vale a dire agli ascoltatori di un tempo – le informazioni necessarie a decifrare la lingua dell’epos mitologico e a raggiungere così la verità nascosta che il mito stesso doveva trasmettere. Più di una volta Wolfram nel suo “Parzival” protesta apertamente contro “maestro Chrétiens”, il quale – sostiene il trovatore tedesco – ha riportato gli avvenimenti in modo errato e non rispondente alla realtà. Qual è, dunque, la realtà?
Il Graal di Wolfram è descritto come una misteriosa pietra, “lapsit exillis”, dalle capacità sorprendenti, addirittura futuristiche. Una pietra che emana potenti radiazioni, una pietra in grado di guarire. Inoltre la lapsit comunica messaggi alla dinastia reale di Munsalvaesche tramite scritte che appaiono sulla sua superficie e poi spariscono senza che vi sia bisogno di cancellarle. Quasi come accade – mi si permetta il paragone azzardato – sullo schermo di un computer. E da dove ha tratto Wolfram, uomo del suo tempo, un’idea di tale fatta?
Il poeta collega l’oggetto misterioso, come abbiamo visto, all’Ordine del Tempio. E lo fa in modo ben chiaro. Una truppa di coraggiosi cavalieri, i “Templeisen”, difende il castello del Graal dagli attacchi nemici e preclude la via di Munsalvaesche a chiunque non sia degno di apparire al cospetto del Graal. Inoltre, dall’altra opera di Wolfram meno nota di cui possediamo soltanto un centinaio di brevi frammenti, “Titurel”, sappiamo che i Templeisen sono sempre presenti presso il trono del monarca durante tutte le riunioni più importanti di palazzo, e hanno diritto alla parola, quasi fossero parte integrante della famiglia del Graal, gli “Anschouwe”, gli Angiovini.
All’epoca in cui von Eschenbach scrisse i suoi epos, l’Ordine del Tempio si trovava nel pieno dello splendore. Lo stesso si può dire della leggenda graalica. Se il trovatore tedesco decise di unire per sempre i due soggetti nei suoi versi arguti tramandando coraggiosamente il messaggio alla posterità, dovremmo almeno essere così gentili da tenere le sue parole nella dovuta considerazione. Dovremmo chiederci che cos’era, in realtà, questa “lapsit exillis”, e che cosa la legava ai Templari.
Verremo così a scoprire che esisteva un circolo d’iniziati all’interno dell’Ordine del Tempio, membri a conoscenza di una realtà inquietante, che rispecchiava il pensiero dei seguaci di Giovanni il Battista, dei Mandei. Ci ritroveremo a dover retrocedere ulteriormente nei secoli passati e a spostarci nello spazio, fino a raggiungere la Palestina descritta nei Vangeli. Qui saranno due personaggi chiave a fornirci la risposta: Gesù e Giovanni Battista. Ciò che apprenderemo dalla ricostruzione della loro storia – una ricostruzione ben diversa da quella che suggeriscono i Vangeli canonici – rivelerà le dimensioni dell’eresia del Tempio e una delle facce del Graal. Perché il Graal è un mistero a due facce. Un Giano bifronte. Se da una parte esibisce i lineamenti del barbuto Battista, dall’altra presenta tutte le caratteristiche di un antico oggetto sacro, un oggetto – ci dice il Vecchio Testamento – che fu costruito secondo le indicazioni di Dio.
Retrocedendo ancora nel tempo sino all’epoca biblica, raggiungeremo il roccioso deserto del Sinai. Ci troveremo a pochi passi dall’accampamento di quelle tribù di pastori nomadi che sarebbero divenute un giorno, grazie agli scritti di una casta sacerdotale intransigente, il popolo eletto di Jahve: gli Israeliti. Nell’ombra silenziosa della loro tenda del Convegno, laddove soltanto i patriarchi Mosè e Aronne avevano accesso, si nascondeva la reliquia più importante, il tramite tra gli uomini e dio: l’Arca dell’Alleanza.
Era uno scrigno di legno d’acacia, dorato, sormontato da due cherubini. Un oggetto di culto molto simile alle arche che venivano portate a spalle da un tempio all’altro durante le sacre processioni degli antichi Egizi. Al posto dei due cherubini, nelle egizie “teba” si ergevano le statue lignee degli dèi niloti. All’interno degli scrigni si celavano altre effigi segrete, oracolari. Erano contenitori sacri che, come racconta l’Antico Testamento, Mosè trafugò dalla terra dei faraoni e portò con sé attraversando il Mar Rosso.
Insieme con gli scrigni dorati, il patriarca israelita rubò anche le antiche conoscenze, quel patrimonio sapienziale le cui formule stavano incise sulle Tavole della Testimonianza. Formule “scritte dal dito di Dio” e “da entrambe le parti”, ci dice la Bibbia. Le tavole antidiluviane di Thot. L’Arca ne fungeva da contenitore. Anzi, era stata costruita proprio allo scopo di proteggerle e conservarle. L’Arca fu anche il contenitore della lapsit exillis cantata da Wolfram. Il contenitore del Graal.
Il carismatico Giovanni Battista, rivale di Gesù e non suo precursore come vorrebbero farci credere i quattro Vangeli, ne era al corrente. Sapeva che l’Arca, nascosta in una buia grotta del monte Nebo, celava al suo interno quanto di più prezioso potesse esserci al mondo: il patrimonio sapienziale dei popoli antichi, il fulcro della tradizione segreta. Giovanni si adoprò per portare avanti il pensiero dei padri. I Cavalieri Templari lo onoravano per questo, così come lo veneravano – e lo venerano tutt’oggi – i Mandei suoi discepoli, fuggiti dalla Terra Santa dopo la morte del Battista, rifugiatisi prima a Harran, in Mesopotamia, e poi nell’Iraq meridionale.
Nel silenzio delle loro stanze segrete, insieme con le Tavole, i Templari eretici custodivano la testa di Giovanni. Non del “precursore”, beninteso, ma di un Giovanni gnostico, universale, rivale di Gesù. Il “diabolico” Bafometto altri non era che il suo capo mummificato dal volto barbuto, una delle facce del Graal. “Bafometto”, deformazione del termine arabo “Abu-al-fihamat”, significa “padre della Conoscenza”. Ricordava all’iniziato il segreto delle Tavole, le lapidi celesti scritte da Dio. La sintesi della Conoscenza umana.