Quaderno Tre – Touhid

PROLOGO DELLA SERA
Aveva attraversato i millenni a scrutare dentro e intorno a sé lo spazio aureo, nel cui cavèo ciò che non era ancora della materia componeva e scomponeva a piacer suo, per ricomporlo poi, senza disegno alcuno, collocando ogni cosa entro le meravigliose sfere della conoscenza.
Interprete eloquente dei costrutti che avrebbero regolato l’universo, Touhid, era l’assoluta unicità del Tutto, espressione autentica di un medesimo Se che assumeva forma e si mostrava entro la dissolvenza della luce, a immagine e somiglianza d’una entità precedentemente costituita.
Nondimeno Touhid, che pur conosceva il supremo ordine delle cose, serbava lo stupore e l’estasi del creato senza tuttavia comprenderne l’arcano, ciò che in verità mancava al conseguimento della propria perfezione e che non gli era dato
oltremodo di scrutare.
Giammai Touhid avrebbe potuto enunciare un’idea o promuovere un’azione, che subito diventava inevitabile condizione del “possibile”. Finanche l’“infinito”, essenza trascendentale dell’immaginario, sarebbe divenuto l’accessibile rivelazione del Tutto complementare.
Ancorché fattosi specchio degli archetipi primari, la cui formulazione era stata enunciata durante il volgere supremo del
Tempo, Touhid s’apprestò ad aprire quell’ultima porta dov’era celato “l’occulto mistero dell’occulto sapere”, ogni cosa infine accadde.
La rivelazione dunque avvenne, e non fu più possibile disconoscerla, poiché si riversò in tutta la sua immensa vastità nelle sfere della conoscenza. Ciò che sarebbe comunque accaduto all’interno di un ultimo ciclo non poi così lontano, tuttavia ancor prima del formarsi cosmico del Tempo.
Allorquando, preso da stragrande ambizione, Touhid volle ricomporre la scatola dei giochi, si dimostrò incapace di mettere ogni singolo tassello entro il disegno originale del creato. Cosa questa, che precluse la sua immanente ascesa nell’infinito universo, inevitabilmente.
Mai più Touhid, che pur si abbeverava alla fonte primigenia della conoscenza, sarebbe uscito dal labirinto delle “infinite” soluzioni che lui stesso andava escogitando durante i suoi giochi, non senza prima aver appreso le leggi che regolavano l’universo e che riconducevano su di un medesimo piano ogni matematica misurazione. Non senza prima aver innalzato a sé ciò che era a lui inferiore, e abbassato ciò che da sempre lo sovrastava.
Soprattutto, non senza aver ricomposto lo schema iniziale della sublime geometria del Tangram, sul cui schema si giocava l’equilibrio delle parti, il perfetto riscontro di ogni dimensione. Ancorché accecato dalla furia, Touhid si rifugiò dapprima nell’irraggiungibile illusione che sovvertiva ancor più i suoi geniali costrutti, per catapultarsi infine, fuori di quella ch’era ormai la sua “stanza dei giochi impossibili”, rapito dagli impetuosi venti cosmici che lo spingevano nell’ancestrale nulla.
O forse, entro quel Tutto che i cicli evolutivi e involutivi che regolavano l’universo andavano tramutando in polvere astrale, sottile e argentata al chiarore della luna, fragile e ambrata sotto il cocente sole, sabbia d’uno sterminato deserto sotto il cui peso Touhid giacque sepolto per i millenni a venire.
Di ciò che era stato, dei suoi costrutti, delle sue mirabili argomentazioni, non rimase che un’eco lontana portata dal vento, cui i viaggiatori sorpresi prestavano orecchio. Solo di tanto in tanto le sue grida, disperate e imploranti, riaffioravano alla dischiusa memoria del Tempo.
Fin quando, recuperata la propria ancestrale perfezione, Touhid si abbandonò all’unicità del Tutto, e rivolto il suo cieco sguardo al supremo assoluto, si predispose a entrare nell’empireo cielo, ascoso per sempre nella luminescenza dell’aire.

TOUHID
“Kan ma kan bidna nihki willa innam . . . c’era, non c’era, racconteremo storie o dormiremo sui nostri giacigli” – incominciò col dire l’anziano Taleb, facendo seguito a una breve pausa di riflessione.

“Ascolta, all’inizio è sempre così, una confusione di voci che desta inquietudine, dapprima accompagnata dal nai , si leva la voce del cantore, poi si inseriscono i responsorii e i battimani del coro, mentre in sottofondo cade ripetitiva la nota di un derboukà . A volte è il suono dell’imzad che accompagna il “canto della notte”, la cui dolente cadenza scuote gli animi e fa sussultare i cuori in una sorta d’incantamento. Altre è invece la voce enigmatica del narratore che racconta di imprese leggendarie tramandate dal mito, di luoghi incantati, lontani e meravigliosi. Altre ancora, è l’eco inarrestabile del vento che discopre la segreta memoria della sabbia. Allora, dove un tempo sorgeva l’antica città, si leva un vortice che in breve riduce a pochi tratti essenziali la morfologia del luogo: una piatta distesa senz’ombre, argentea al chiarore delle stelle” – diss’egli, cercando di destare attenzione tra la folla dei passanti che, incuriositi, si erano fermati ad ascoltarlo.
“L’Antica Città sorgeva all’interno di uno stupendo giardino, circondato da altissime mura che lasciavano intravedere appena le numerose cupole dorate che risplendevano nel mezzo della notte, e gli altissimi minareti le cui guglie giungevano fino a toccare il cielo. Vi si ammiravano piazze lastricate di marmi pregiati, con piscine e giochi d’acqua che fuoriuscivano da mille fontane, splendide università e biblioteche ove si potevano apprendere le arti e le scienze, la matematica e l’astrologia, la fisica e la filosofia, la poesia, la musica, e ogni altra cosa, ovvero, l’intero scibile d’ogni sapere”, aggiunse poi, raccogliendo non poca attenzione tra quanti si ritrovarono ad ascoltare la sua narrazione.
La leggenda appena narrata aveva suscitato non poca curiosità in quanti, come me, si trovavano ad ascoltarla dalla viva voce di quell’infaticabile erudito, un po’ narratore e un po’ predicatore, frequentatore di piazze e animatore di fiere, il cui viso riarso dal sole mostrava i segni di un lungo viaggiare fra stenti e privazioni. E in molti ci trattenemmo al suo richiamo, quand’egli, dopo un primo giro di questua, c’invitò a sederci in cerchio attorno al fuoco che manteneva acceso sul pavimento lastricato della grande piazza Al-Kalili, a Marrakech.
Una sensazione di forzata attesa s’impadronì di noi, presi com’eravamo da una sorta di volontà sottomessa, o forse, di dovuto rispetto per il suo erudito narrare. Quando un turbine di vento, improvviso c’investì sollevando la sabbia sparsa d’intorno, gettandocela negli occhi:

. . .
Vedo venire dal deserto,
vedo venire dalla terra orrenda,
turbini cacciati dal vento di mezzogiorno,
a distruggere tutto.

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