di Nicoletta Travaglini
Adagiata lungo le pendici del colle “Piana dei Monti”, attraversata dai fiumi Sangro e Aventino, immersa tra boschi di macchia mediterranea, ad appena 30 chilometri dal mare e a 15 dalla montagna, a solo 455 sul livello del mare, sorge Roccascalegna, un ameno paesino di probabili origini medioevali.
Molte leggende sono nate intorno alla fondazione di questo piccolo comune, come quella che narra che gli abitanti di Amnium, antica città romana fondata nel 300 a. C. nei pressi del fiume Sangro, per sfuggire alle continue invasioni dei mori, si spostarono verso l’interno dando vita a molti villaggi tra cui Roccascalegna. Sempre in tema di leggende si dice che i fantasmi dei antichi abitanti di questa città vaghino ancora per questi luoghi.
La vita religiosa dei primi abitanti di Roccascalegna si organizzò intorno all’abbazia di San Pancrazio, il cui primo riferimento si fa risalire al 829. Durante il medioevo, infatti, i due centri più importanti su cui si accentavano le genti, erano i castelli e le chiese, sia esse monasteri o abbazie. Il suo imponente profilo si erge a circa chilometro circa dal centro urbano di Roccascalegna, lungo la strada provinciale Altino-Pennadomo. Essa dipendeva dal monastero di San Liberatore a Majella e nel 1176, secondo quando si legge nella bolla firmata da Alessandro III, passò alle dipendenze di San Giovanni in Venere.
Ricostruita ex novo, come si può leggere sull’architrave del portone, forse perché distrutta dal colera e dalle continue incursioni saracene, la sua ubicazione iniziale rimane tuttora un mistero. La vita di questa antica badia fu molto travagliata, tra il 1324-1325 essa aveva la giurisdizione a Rocca Scaregna e sulle chiese di Santa Maria, S. Angelo e San Criscentiani, di cui oggi non vi sono tracce.
Abbandonata intorno al 1500 dai benedettini, a causa della peste e di una forte carestia, fu affidata agli Agostiniani, che non ne ebbero molta cura, poiché verso la fine del 1500, essa versava in uno stato di completo abbandono. A questo punto, le notizie sull’allora chiesa madre, si fanno sempre più frammentarie fino a perdersi nei meandri polverosi del tempo, per poi riapparire nella seconda metà del 1900, quando essa fu restituita, dopo un’ accurato restauro, agli antichi splendori di chiesa medioevale.
Oggi si può ammirare la bellezza delle pietre variopinte, delle arcate gotiche, nella semplicità delle due navate prive di addobbi al cui centro si trova l’altare su cui è posta la statua di San Pancrazio e infine la solenne torre campanaria il cui apice termina in una bifora.
Intorno a questo luogo, adiacente il cimitero, sono fiorite numerose leggende tra cui quella nella quale si narra che la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dentro l’abbazia si riuniscono i morti per una solenne cerimonia. In un’altra leggenda si dice che l’ombra proiettata dal campanile della chiesa sulla collina di “Piana dei Monti”, sia il luogo dove i briganti sotterrarono un favoloso tesoro.
Ripercorrendo, virtualmente, il cammino degli antichi viandanti si arriva al borgo medioevale, sviluppatosi intorno al castello, posto su una roccia calcarea. I nostri avi per entrare a Roccascalegna, che allora si chiamava Rocca Scaregna o Rocca Scarenya, dovevano accedervi mediante due porte: una chiamata porte “Porta del Forno” e l’altra chiamata “Porta della Terra”. Attraversata la “Porta del Forno”, poiché dell’altra porta ne ignoriamo l’ubicazione, si accede al borgo vero e proprio. Appena attraversato il “Supporto”, una sorta di arcata che serviva per non intralciare il transito e, nello stesso tempo, di aumentare lo spazio delle abitazioni. Sulla destra del Supporto si trova una gradinata porta alla la chiesa di San Pietro e alla rocca. A ridosso della chiesa di San Pietro si trovava il centro artigianale, con le sue piccole bottegucce, forse anche un forno, e la casa della famosa strega “Comare Rosa”.
La chiesa di San Pietro è ubicata proprio sull’ ultima propaggine dello sperone roccioso del castello, costruita in un lasso di tempo imprecisato tra la metà del XIV e l’inizio del XV secolo. Su questa chiesa i baroni del luogo avevano patronato, che si basava sul diritto di presentare all’arcivescovo i candidati da nominare al titolo di parroco e questi dovevano, in un certo senso, obbedienza cieca al nobile di turno. Secondo vox populi, pare che solo due parroci si siano ribellati al potere dei baroni, ma questo loro atto finì in tragedia, infatti, furono assassinati in maniera crudele e tremenda.
Con l’andare del tempo, questo edificio sacro è divenuto l’unica chiesa parrocchiale dell’intera comunità, poi persa nel 1934 a favore della più centrale chiesa di SS. Cosma e Damiano.
La sua imponente mole è stata restaurata alla fine degli anni ’90 del novecento, e oggi si può ammirare la magnificenza di tesori che custodisce oltre alla sua rara bellezza e ieraticità. Al suo interno si può vedere la statua del Cristo Morto, la Madonna dei Sette Dolori con il sua triste veste nera e il pugnale che la trafigge, tipico retaggio della dominazione spagnola, la statua di Santa Lucia del 1893, San Pietro assiso sul suo trono posto proprio sull’altare oltre che moltissime reliquie conservate in sette teche.
Si dice che quando suonano le campane di San Pietro si sta per grandinare e il suo poderoso suono, il più delle volte, ha evitato questo grave flagello.
Continuando a seguire i pellegrini virtuale saliamo l’erto sentiero che mena verso l’ingresso del castello. Dopo aver percorso una lunga gradinata ci si ferma ad ammirare quello che resta di un ponte levatoio che serviva come attraversamento del fossato antistante, oltre che ulteriore difesa del castello. All’interno si può osservare la Torre crollata sulla cui sommità dell’arco vi era scolpito un cuore e che forse rappresentava la camera da letto del temibilissimo barone corvo de Corvis crollata nel 1940, la Torre di sentinella, la Torre quadrata, la cappella dedicata al Santo Rosario, la Torre Angioina, il magazzino, la Torre del Carcere e le segrete.
Sull’origine di questo maestosa rocca non vi sono elementi precisi ma da vari riferimenti storici possiamo affermare che esso esisteva già nel XIV sec. Tra le diverse ipotesi formulate quella più attendibile potrebbe essere che durante le lotte Bizantine Longobarde, tra il V e VI secolo d.C. i Longobardi scelsero questa roccia arenaria come loro difesa e la fortificarono, poiché essa risultava essere al centro di un collegamento tra le varie postazioni longobarde, chiamate “Fare”, che oggi rimangono solo nei toponimi di molti paesi del nostro Abruzzo. Con l’aumento demografico e l’incastellamento signore e padrone del castello abbisognava di un proprio “spazio” per difendere meglio suoi sudditi, i quali furono costretti a stabilirsi fuori dalle mura dei manieri, e forse da lì che nacquero i borghi medioevali. Il Castello, durante la sua lunga e tormentata vita, è stato poco abitato ed ha avuto delle lente e molto limitate trasformazioni.
Il primo feudatario del castello fu Annichino de Annichinis, soldato di ventura tedesco, giunto qui al seguito del valente condottiero Giacomo Caldora, che per i servigi resigli, gli regalò il feudo.
I suoi discendenti: Raimondo, Alfonso e Giovanni Maria, furono abili governanti ed arrivarono a possedere 15 feudi compreso il nostro; purtroppo Giovanni Maria, nonostante la sua abile politica diplomatica e i suoi interventi di manutenzione ed adeguamento del castello alle armi da fuoco, si macchiò di diverse colpe, come: l’assassinio di un nobile, la complicità più o meno evidente con i francesi, l’odio manifesto nei confronti del monarca spagnolo Ciarlo V, il suo legame con i Riccio di Lanciano, che nel 1528 circa, gli fecero perdere il feudo e il titolo, che fu acquistato dai Carafa di Napoli, che, a loro volta, lo persero a causa di un certo Orazio che in seguito al applicazione di leggi inique e lesive, fu trucidato dagli abitanti di Roccascalegna nel 1584.
Il feudo tornò al Regio Demanio e nel 1597 fu acquistato per alcune migliaia di scudi dalla famiglia De Corvis di Sulmona e proprio a un loro discendente che si attribuisce un fatto di sangue accaduto nel castello che segnò per sempre la vita di questo tranquillo e ameno angolo del nostro meridione.
Il feudo di Roccascalegna fu acquistato dai “Corvi” di Sulmona nel 1599 circa, per la precisione dal barone Vincenzo Corvi per 10.000 ducati, a questi successe Annibale, quindi Giuseppe, da questi passò a Giovanni Battista, poi fu la volta di Annibale III, successivamente il feudo finì nelle mani di Pompeo, e alla fine Pompeo Filippo lo vendette a un aristocratico di Palena, Don Nicolò Nanni, e così si chiuse la saga dei baroni Corvi di Sulmona.
Si racconta che nella prima metà del 1600 un certo barone De Corvis fu nominato membro del Senato di Napoli, questo incarico stabiliva che coloro che la ricoprivano dovevano necessariamente rimanere a Napoli. Il barone, quindi aveva bisogno di denaro per potersi permettere il soggiorno partenopeo e così impose gabelle e balzelli vari a tutti i suoi suddetti, compresi i poveri abitanti di Roccascalegna, residenza estiva e feudo del De Corvis.
Il barone era molto tirannico e forse feticista, comunque per vessare ancor di più i suoi vassalli, impose loro di venerare un corvo nero come le tenebre e chi si rifiutava di genuflettersi al cospetto di questa creatura della notte veniva arrestato e buttato in un pozzo, dove vi erano delle spade conficcate nel terreno che dilaniavano i corpi dei poveri sventurati.
A causa di questa sue strane ossessioni, il barone fu ribattezzato dal popolo come Corvo de Corvis, ma il Corvo non pago dei vari soprusi decise di imporre la legge dello “ Jus Primae Noctis”, ovvero “il diritto della prima notte” e quindi chi sposava doveva “ricomprare” la propria moglie in base al pagamento di un tassa stabilita dal signore del castello su canoni che tutt’oggi ignoriamo e coloro che non potevano riscattare la propria sposa…
Appena questa legge divenne operativa il reverendo scomunicò il barone e sobillò la folla a ribellarsi, ma i “bravi” del signorotto sorpresero il parroco mentre cercava di mettersi in salvo dagli anatemi del nobile, e lo trucidarono proprio ai piedi del castello.
Oramai il destino del barone era segnato e così un giorno si presentarono dal barone due giovani che volevano sposarsi ma l’uomo non aveva i soldi per ricomprarsi la moglie e così fu costretto accettare di cedere la donna per la prima notte.
La donna all’imbrunire, dopo essersi sposata, si recò al castello, le porte si aprirono e la donna vide l’interno del mastio illuminato da miglia di fiaccole che rischiaravano il suo cammino. Arrivata che fu alla camera del barone si coricò, ma mentre il barone quarantacinquenne faceva lo stesso, gli spaccò il cuore con un colpo di stiletto. Il de Corvis morente si appoggio la mano sul cuore, nel vano tentativo di fermare il sangue che fuoriusciva copioso dalla ferita, e appoggiò la sua mano insanguinata vicino al suo capezzale, maledicendo la stirpe della sua assassina.
La folla inferocita assaltò il maniero uccidendo il corvo e liberando il paese da un incubo che lo aveva attanagliato per anni.
La leggenda dice che in epoche diverse si sia provato a cancellare la mano di sangue che campeggiava sul capezzale della camera da letto, ma essa riaffiorava più vermiglia e nitida di prima, finché nel 1940, in seguito a un annata particolarmente piovosa, parte del castello è crollato portandosi via anche la camera dove era successo l’omicidio.
Un’altra leggenda narra che, nelle notti di tempesta quando il vento sferza le merlature del mastio e le nubi basse e neri accarezzano la torre, un volo radente di corvi preannuncia il ritorno del barone che passeggia inquieto per le stanze del suo antico maniero, cercando la pace eterna.
Questa è una leggenda e come tale i personaggi non sono realmente esistiti, ma il de Corvis rappresenta l’incarnazione della perfidia e cattiveria con cui il potere ha dominato e continua a dominare le genti di tutti i tempi e luoghi della Terra.
Dopo i De Corvis vi furono, come abbiamo detto, Croce – Nanni, che nella prima metà del 1700 acquistarono il feudo, che in breve tempo fu abbandonato a se stesso, poiché fu chiuso, in quanto essi si trasferirono in un palazzo baronale al centro del paese, oggi adibito ad abitazione privata.
I Croce-Nanni si macchiarono di un feroce crimine nei confronti di un clerico: era settimana Santa del 1720, quando, come atto dimostrativo nei confronti dei riottosi abitanti del feudo, il fratello del Barone, prese un parroco della chiesa di San Pietro e lo legò alla quarta colonna di destra e dopo averlo seviziato dal giovedì Santo fino al sabato egli morì.
Durante il Brigantaggio la torre fu sede della Guardia Nazionale e durante le due Guerre Mondiali diede asilo a ogni sorta di malfattori.
Il castello rimase proprietà dei Croce – Nanni fino agli inizi degli anni ‘ 80 del novecento, quando fu donato al comune che iniziò una poderosa e abile opera di restauro, culminata nell’apertura al pubblico nella seconda metà degli anni ’90.