Non ho mai sottovalutato il desiderio inestinguibile di senso, lo spazio irriducibile dell’interpretazione, la parola come superamento del silenzio, come neppure ho mai pensato a una concezione del tempo che propendesse per un atteggiamento diverso nei confronti del presente o del passato. Piuttosto, che rendesse pensabile una diversa costruzione del futuro, ove il tempo non fosse semplicemente memoria di forme, o apparenza di significato, bensì incontro di realtà e immaginazione, ripetizione d’inconscio, reminiscenza involontaria di quel presentimento del fantastico che si annida in ognuno di noi.
Così, come certamente occorse a Jean Potocki, (il grande viaggiatore di fine ‘800), davanti a ciò che non era mai cambiato nell’astratta sensazione del vissuto, la cui sembianza figurativa del passato diventava ripetizione di ciò che siamo, anch’io mi sono chiesto: “Quale anima è così inaccessibile all’ammirazione da potersi sempre difendere da questo esaltato sentimento che è
l’immaginario?”, nel mentre, pur rimanendo sempre uguale a me stesso, andavo riscoprendo la memoria antica, farsi presente nella realtà del tempo in cui vivevo.
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