Quando è uscito nel 1966/67, il film di Francois Truffaut tratto dal romanzo di Bradbury è stato violentemente stroncato dalla critica, che pero già a partire dal 1971 ha cominciato a rimangiarsi quanto scritto e a cambiare opinione…
di Luigi Cozzi
Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Ray Bradbury e di passare un’intera serata a cena con lui a Los Angeles, nel 1981. Lui era lieto di incontrarsi con il regista di un film italiano di fantascienza (il mio “Starcrash”) che aveva avuto da poco un grande successo di pubblico anche negli Stati Uniti e, in particolare, gli interessava sapere notizie e curiosità sul conto di Christopher Plummer (un attore che Bradbury amava moltissimo ma che non aveva mai conosciuto personalmente, mentre io l’avevo appena diretto appunto in quella mia pellicola) invece, da parte mia, volevo sapere da Bradbury tutto il possibile su di lui, sui suoi libri che tanto amavo, sui film di fantascienza che lui aveva contribuito a creare ( dal “II Risveglio del dinosauro” in poi, eccetera eccetera). Fu una serata bellissima. Ma prima di riferirvene la cronaca (e scusate il ritardo) nell’articolo successivo, lasciatemi aggiungere qualcosa sul film che Francois Truffaut ha tratto da uno dei capolavori letterari di Bradbury, “Fahrenheit 451”…
A proposito di cinema, fantascienza e poesia…
Ray Bradbury e uno degli scrittori di fantascienza degli anni Cinquanta del secolo appena trascorso che più frequentemente si sono accostati al cinema, sia attraverso la trasposizione diretta di qualche sua opera sia per la sua personale collaborazione alla stesura di pellicole come “Moby Dick” di John Houston o “Destinazione… Terra… “ di Jack Arnold.
D’altra parte, Bradbury può vantarsi di avere contribuito, con il suo romanzo “Fahrenheit 451” (edito in Italia anche come “Gli anni del rogo”), anche alla nascita del film “Fahrenheit 451” di Francois Truffaut, uno dei maggiori registi europei (purtroppo tragicamente scomparso in modo prematuro alcuni anni fa). Truffaut, attraverso i suoi film, è infatti un grande autore che è riuscito a esprimere un discorso tematico e molto personale continuo, logico e in costante evoluzione, pervenendo spesso ad alti risultati artistici e poetici (come per esempio nel commovente “II ragazzo selvaggio”, in “Jules et Jim” e in “Baci rubati”, quest’ultimo giustamente premiato con un Oscar). E, secondo me, nella filmografia di questo grande regista il film “Fahrenheit 451”, tratto dall’omonimo romanzo di Bradbury, costituisce, pur con i suoi numerosi difetti, una delle vette artistiche più stimolanti di questo suo discorso, eguagliata forse soltanto dall’altro quasi-capolavoro di Truffaut “La mia droga si chiama Julie” ispirato dal superbo libro (“Vertigine senza fine”) di un altro grande maestro dell’immaginario letterario, Cornell Woolrich, ma di questo oggi sembrano convinti tutti.
Eppure, quando è stato presentato per la prima volta al pubblico durante la Mostra Cinematografica di Venezia nel 1966, il film di Truffaut “Fahrenheit 451” non era piaciuto per niente ai critici, i quali sancirono che creando quest’opera Truffaut aveva commesso un grave errore abbandonando la vena autobiografica de’ “I 400 colpi” per dedicarsi invece a un argomento allora ritenuto sciocco e fumettistico come la fantascienza (invece, dopo il Joseph Losey di “The Damned”, Truffaut è stato il secondo grande autore di cinema a capire la straordinaria validità della science fiction, più o meno contemporaneamente a quello Stanley Kubrick che, realizzando contemporaneamente in Inghilterra lo straordinario “2001: odissea nello spazio”, avrebbe poi cominciato a fare uscire per sempre la fantascienza fuori dal ghetto).
Proprio ricordando oggi quelle recensioni sprezzanti e altezzose ricevute da “Fahrenheit 451” al momento della sua prima uscita nelle sale, e molto divertente notare che invece, appena alcuni anni dopo (nel 1971), quando il film e stato riproposto (in bianco e nero!) dalla nostra televisione di Stato, vari giornali si sono sentiti già allora nella necessità di dover rettificare il precedente, negativo giudizio. E’ il caso, per esempio, di quotidiani anche importanti come “La Stampa” e “Il Corriere della Sera” : rivedendo infatti in televisione nel 1971 quel film fantascientifico di Truffaut, i critici di quelle testate si accorsero che, malgrado i cinque anni trascorsi, la pellicola non era per nulla invecchiata e che, anzi, a quel punto sembrava ancora perfino più all’avanguardia… come forse non e più soltanto adesso, nel 2003, quando nelle nostre case osserviamo ogni sera in televisione spettacoli come le “soap” o “II Grande Fratello” (a proposito, ma quanti oggi ancora si ricordano che a ideare questo titolo e stato lo scrittore George Orwell nel suo celebre romanzo avveniristico “1984”?) esattamente come fanno anche i personaggi principali del film “Fahrenheit 451”.
Esemplare in questo rovesciamento dei giudizi e stato, nell’appena ricordato “generale ravvedimento critica” su “Fahrenheit 451” del 1971, il caso del comportamento del quotidiano di sinistra “Paese Sera” di Roma, il quale, presentando la prima proiezione televisiva italiana di quel film, ha scritto, riprendendo la recensione fatta cinque anni prima a Venezia dal critico Aldo Scagnetti, che questa di Truffaut era un’opera minore, debole e condotta in uno stile derivato da Hitchcock (inteso in senso dispregiativo, mentre oggi invece tutti questi soloni della critica pontificano sull’assoluta genialità del grande regista di “Psycho”… ).
Ma le cose cambiano, no?
II giorno dopo, infatti, sempre nel 1971 e sempre nella me de sima pagina di “Paese Sera” dove era appena stata ristampata la precedente stroncatura, un altro critico… che evidentemente la sera prima si era rivisto con più attenzione o comunque con una migliore capacità di giudizio quel film di Truffaut in televisione… quest’altro critico del 1971 si e sentito obbligato a fare una sorta di rettifica, esprimendo una drastica variazione di giudizio: il giorno successivo al passaggio televisivo, infatti, sempre su “Paese Sera” il film “Fahrenheit 451” non e stato più giudicato come un’opera minore, debole e derivativa di Hitchcock, bensì è stata invece valutata come una pellicola insolita, forse difficile ma comunque bella, molto bella.
A mio parere, rivisto oggi, il film di Truffaut “Fahrenheit 451” ha certamente diversi gravi difetti, che però, invece di renderlo indigesto, contribuiscono a renderlo paradossalmente solo più intrigante e affascinante. Esiste, per esempio, in questa pellicola la difficoltà pressoché insormontabile di conciliare l’attrice Julie Christie con il doppio ruolo dell’amante e della moglie: certo, la Christie nel 1966 è fresca reduce da un Premio Oscar e dal trionfo mondiale nel “Dottor Zivago”, ma forse Truffaut avrebbe fatto bene, con un atto di coraggio, a unificare i due differenti personaggi femminili immaginati da Bradbury, considerando che, in fondo, costituiscono lo sdoppiamento della medesima persona. Con questa unificazione, forse, Truffaut avrebbe guadagnato parecchi minuti utili in più, da dedicare magari a una maggiore motivazione della decisione che spinge il “pompiere” Montag a portarsi a casa un libro proibito. Forse.
Inoltre, dopo un inizio travolgente, il film di Truffaut attraversa una lunga fase di stasi di circa dieci minuti, nei quali il ritmo ristagna anche se queste scene lente sono necessarie per farci comprendere meglio gli elementi fondamentali di base della paradossale storia futuristica che ci sta venendo raccontata. Poco dopo, comunque, “Fahrenheit 451” riprende vigore, e si snoda nervoso e scattante fino alla conclusione: qui incontriamo un’altra pausa nel ritmo, un secondo “fermo” narrativo che avrebbe forse dovuto essere sostituito invece da un ulteriore crescendo di tensione: la fuga del pompiere ribelle Montag messa in scena con più dettagli e inseguimenti (il micidiale “mastino” robotico che appare in questa sezione del libro di Bradbury, per esempio, e del tutto omesso nel film, forse per la difficoltà di creare nel 1966 un credibile cane meccanico dato il basso livello qualitativo degli effetti speciali di quell’epoca).
In seguito, con l’arrivo del protagonista al rifugio degli uomini-libro, Truffaut riprende il giusto passo ritmico della narrazione e arriva addirittura, in questa superba sezione del film, a sfiorare vertici assoluti di pura poesia, tanto che lo stesso Bradbury si e dichiarato pubblicamente ammirato da questa mirabile messa in scena delle sue idee.
Dopo i difetti, ecco pero i pregi di “Fahrenheit 451”, pregi che a mio parere sono davvero tanti e nel complesso molto più importanti e determinanti dei difetti. La splendida fotografia di Nicholas Roeg (poi bravo regista a sua volta di film come “A Venezia un dicembre rosso shocking”) “costruisce” in maniera eccellente il colore, mai subìto e sempre reinventato : Truffaut muove poi sempre la cinepresa con la sua classica, indiscutibile eleganza unita a una grande fluidità, e sa anche ricorrere ad espedienti come quello ad esempio, del “rallentato” quando è necessario, sfruttando a volte persino le diverse gradazioni del diaframma per ottenere effetti funzionali ed emozionali, imprimendo comunque sempre in qualunque fotogramma di questa pellicola il suo inconfondibile marchio di perfetto maestro di cinema.
Non solo, ma questo regista straordinariamente ispirato che e stato Francois Truffaut perfeziona anche in “Fahrenheit 451” (che è, tra l’altro, a mio parere forse il meno hitchcockiano dei suoi film … ) il suo costante e nostalgico recupero di idee e trovate del migliore cinema muto degli anni Venti. Rivediamo così l’auto dei pompieri delle vecchie comiche; il gioco con i telefoni (quando Montag parla con il pronto soccorso) ispirato da Buster Keaton; il fondino nero che viene a isolare il dettaglio della foto di Montag tra le mani del suo superiore, estratto dal primo film di Fritz Lang del ciclo del dottor Mabuse; e numerosi altri particolari deliziosi che, notiamo, difficilmente se non mai si riscontrano nel cinema degli anni Sessanta (e anche degli anni successivi).
Ancora, ricordo in “Fahrenheit 451” la memorabile dissolvenza incrociata che, al termine dell’incubo notturno, passa quasi impercettibilmente dal primo piano di Montag a quello di Clarisse, inquieta nel letto in un’identica posa. Oppure si ripensi a quello stupendo montaggio della telefonata anonima all’inizio del film, quando un occultatore di libri è avvisato dell’arrivo dei “pompieri” (che in realtà so no invece quelli che bruciano i libri). Qui, con una serrata serie di piani ravvicinati, Truffaut rende stupendamente [l’idea della minaccia e del pericolo immediato, creando al tempo stesso del cinema di prima qualità: e non è imitazione o derivazione da Hitchcock, qui, ma cinema puro e, soprattutto, puro cinema del grande Francois Truffaut. E quindi io non ho paura anche oggi ad affermare che, rivisitando “Fahrenheit 451”, si trova sempre di più la certezza che questa pellicola non è un capolavoro, no di sicuro, ma che comunque è un bellissimo film sbagliato con però alcune sequenze stupende. E io nel complesso preferisco un film pieno di difetti ma anche con molti momenti emozionanti e splendidi come ci sono qui in “Fahrenheit 451”… si, preferisco un film solo mezzo riuscito come questo a una qualunque altra pellicola ben confezionata, ben fatta, ben ripulita, ma fredda e anonima, senza vita.
Già, per me sono meglio i soli venti minuti stupendi che ci sono in “Fahrenheit 451” piuttosto che le ore e ore di banalità ineccepibili, omologate e preconfezionate che imperano da sempre sugli schermi cinematografici del cinema di serie.
Ma e ora di chiudere, e allora lo faccio ricordando che di recente il celebre attore Mel Gibson ha ricomprato da Bradbury i diritti cinematografici del suo romanzo “Fahrenheit 451” e da qualche anno sta tentando di realizzarne una nuova versione per il grande schermo, con l’intenzione non di interpretarla ma semplicemente di dirigerla lui stesso: vedremo se in futuro ne uscirà fuori qualcosa di buono, forse… anche se a mio parere un film come il “Fahrenheit 451” di Truffaut non è eguagliabile o anche solo ripetibile senza un autore di pari livello poetico dietro la macchina da presa… e Mel Gibson, sinceramente, non mi pare molto all’altezza. Ma spero di sbagliarmi: vedremo!